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Cannabis e adolescenza: il rifugio in un mondo ideale

27/10/2017

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Da anni mi occupo di adolescenti, sia nell'esperienza come clinico di comunità educative e terapeutiche, sia all'interno dei servizi che svolgo nel mio studio.



In questo articolo vorrei parlare dell'uso che sempre più sta prendendo piede del uso della sostanza come fuga da pensieri e richieste che l'adolescente teme di non poter controllare e soddisfare.

Un tempo era in rilievo l'uso di queste sostanze da un punto di vista ricreativo e gruppale, l'immagine di sè all'interno di un gruppo trasgressivo che condivideva l'uso di sostanze proibite creava una condivisione che permetteva di sentirsi parte di un gruppo, nella creazione di un'identità gruppale nascente e condivisibile.

Oggi, invece, oltre a questo aspetto che permane, sono sempre più presenti nei discorsi dei ragazzi frasi quali: "così non penso", "sedo la mia rabbia con una canna", "almeno per un pò non devo pensare"...ecc ecc, come se per questi ragazzi la richiesta di una "mente al lavoro" in un processo di creazione identitaria, come avviene in adolescenza, fosse una richiesta eccessiva da cui si deve evadere in qualche modo.

La società è notevolmente cambiata, le richieste sono sempre più pressanti (basti pensare all'"agenda" di alcuni bambini che nel corso della settimana svolgono corsi di ginnastica, di musica, di danza, più sport contemporaneamente...ecc).

La possibilità di poter stare nel silenzio (evolutivo), in un vuoto pensante ad oggi viene difficilmente accettato dagli stessi genitori che sentono questi momenti come persi, la noia è qualcosa da cui scappare, un termine inaccettabile e che i figli non devono conoscere.

Ci si può dunque aspettare qualcosa di diverso da ragazzi di 14-16 anni che sono alle prese con processi di sviluppo psico-fisico così importanti e gravosi? Direi di no.

Probabilmente una cura di questi aspetti potrebbe aiutare maggiormente i genitori a comprendere questi fenomeni e allo stesso tempo gli adolescenti a poter tollerare maggiormente la frustrazione derivante da pensieri nuovi, sentiti come gravosi, ma necessari per una ristrutturazione identitaria quale quella che l'adolescente è chiamato ad attuare. Lasciare la propria immagine infantile di bambino amato e accettato dal nucleo familiare a favore di un'immagine di sè diversa, da costruire e creare all'interno di un gruppo di pari è un percorso difficile e che spesso può far paura e a cui si può, in alcuni casi, cercare di sottrarsi ma il buon esito di questo processo è necessario per la buona riuscita di un sè più maturo, consapevole e strutturato.

A cura del dott. Marco Santini
Psicologo-Psicoterapeuta
santini@percorsipsicologici.com



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COME ESSERE PIU' MINDFUL

23/10/2017

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Vi è mai capitato di rispondere male a qualcuno e di sentirvi in colpa poco dopo? Vi succede mai di reagire di impulso in una situazione stressante e, osservandovi, di non sentirvi soddisfatti del vostro comportamento?

Credo che qualcosa di simile succeda a tutti e anche abbastanza di frequente.

Le vite che conduciamo sono spesso frenetiche, siamo sottoposti a ritmi impegnativi e stressanti che assorbono quasi completamente la nostra attenzione e le nostre energie psico-fisiche e ci limitano la possibilità di riflettere su noi stessi, sui bisogni del nostro corpo e sulle relazioni interpersonali che viviamo.


Jon Kabat-Zinn, un professore di medicina, scrive così: “…a tratti perdiamo il contatto con noi stessi e con la pienezza delle nostre possibilità, comportandoci invece come robot nel modo di vedere, pensare e agire. In quei momenti ci dissociamo dalle nostre potenzialità più profonde che ci offrono forse le maggiori occasioni di creatività, apprendimento e crescita… Per consentirci di avere piena coscienza della situazione in cui ci troviamo, quale che sia, dobbiamo imporci una pausa sufficientemente lunga per inquadrare il presente; sufficiente per sentirlo, vederlo nella sua pienezza, conoscerlo e capirlo. Solo allora potremo accettare la verità di quel momento della nostra vita, trarne esperienza e continuare. Invece diamo spesso l’impressione di occuparci del passato, di ciò che è già accaduto o di un futuro non ancora arrivato.”


Dunque, cosa vuol dire provare a essere “Mindful”? Il termine Mindfulness significa “attenzione consapevole”, cioè porre attenzione in modo intenzionale e non giudicante al momento presente.
Provo a spiegarmi meglio.

Si tratta di uno stato mentale particolare, ottenuto con uno sforzo cosciente da parte della persona e che ci pone in ascolto dei nostri pensieri, delle nostre emozioni e delle sensazioni corporee, osservandoli senza soffermarsi e accogliendoli senza giudizio e senza la volontà di modificarli.


Quello che la Mindfulness vuole promuovere è l’acceptance ossia l’accettazione dei nostri stati interni (emozioni, pensieri e sensazioni fisico-corporee) prima di rispondervi con una reazione/azione automatica. Questo tipo di atteggiamento ci propone di essere più consapevoli e vitali nel mondo, ci protegge dalle conseguenze potenzialmente negative di un comportamento messo in atto in modo impulsivo e disattento e ci invita a essere più sensibili a quello che ci accade e alle esperienze quotidiane.

Essere mindful ci aiuterebbe, come dice Kabat-Zinn, a non perdere il contatto con noi stessi e con le nostre possibilità, ci comporterebbe l’essere presenti a noi stessi e alle nostre sensazioni nel qui e ora e ci consentirebbe di fare scelte pensate, di essere più flessibili, di vivere maggiormente delle esperienze quotidiane, di prestare attenzione ai nostri bisogni e di rispondere alle stimolazioni con comportamenti più efficaci.


Gli orientamenti psicoterapeutici che utilizzano la pratica della Mindfulness sono prettamente quelli cognitivi e cognitivo-comportamentali. Alcuni studi scientifici ne hanno dimostrato i benefici a vari livelli: cognitivo, emotivo e corporeo. In particolare, la possibilità di essere mindful migliora la funzionalità e la natura dei pensieri, consente una migliore regolazione delle emozioni, rafforza il sistema immunitario, migliora le risposte allo stress e conferisce un benessere fisico generale.


Tutto questo non è affatto per dire che il passato o il futuro non siano importanti, tutto quello che abbiamo vissuto, le esperienze che abbiamo fatto, le persone che abbiamo incontrato e le emozioni che hanno suscitato in noi sono il nostro bagaglio più prezioso perché ci hanno resi vivi e hanno contribuito alla nostra crescita e alla realizzazione di quello che siamo e di quello che potremo essere un domani. Non dobbiamo però, farci trascinare o distrarre troppo dal “qui e ora”, dal nostro presente perché “per noi spunta solo quel giorno al cui sorgere siamo svegli” (Hanry David Thoreau).

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CHI E' LO PSICOLOGO? PREGIUDIZI E FALSI MITI

12/10/2017

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Sfortunatamente, ci sono ancora tantissimi pregiudizi e falsi miti intorno alla professione dello psicologo e l’obiettivo del presente articolo è proprio quello di fornire qualche indicazione breve e chiara a riguardo e limitare la nuvola di mistero che aleggia intorno a noi psicologi e al nostro lavoro.


Una delle conseguenze spiacevoli della mancanza di una conoscenza chiara del nostro modo di lavorare è questa: tante persone che avrebbero bisogno dell’aiuto di un professionista finiscono per rinunciare a questa opportunità per timori e vergogna, a discapito della propria salute e del proprio benessere psicofisico.
Ho deciso di dividere l’articolo in punti, ognuno dei quali fa riferimento a frasi che ho sentito e sento dire quotidianamente:


  1. Chi va dallo psicologo è un pazzo
Questa frase è proprio un classico, l’abbiamo sentita tutti almeno una volta. In realtà, lo psicologo, oltre ad occuparsi di patologie psichiatriche, opera all’interno dell’area della “normalità” al fine di promuovere il benessere e la salute psichica di individui, coppie, famiglie e della società nella sua totalità. È davvero un peccato interpretare la scelta di andare da uno psicologo come debolezza personale e mentale. Io credo che si tratti invece di un’azione coraggiosa perché implica una presa di posizione sulla propria vita e sulla propria sofferenza, rilevare aspetti molto intimi e, talvolta, dolorosi a un professionista che, almeno all’inizio, è uno sconosciuto. Quello che ne consegue è una nuova e potente risorsa per affrontare la vita e le sue difficoltà.


  1. Anziché pagare uno psicologo posso sempre parlare con il mio amico
Ci tengo a sottolineare che amicizie e familiari, definibili con il termine di rete sociale, siano una risorsa fondamentale per ognuno di noi. L’uomo è un animale sociale e per questo motivo le relazioni interpersonali sono di innegabile importanza. Lo psicologo però, non è un amico, non da consigli, non critica e non emette giudizi. Lo psicologo è un professionista con una formazione specifica sul funzionamento mentale e sul comportamento umano, che rispetta il punto di vista del paziente, che valorizza i suoi vissuti e le sue credenze e che mette a disposizione le proprie conoscenze al fine di costruire e promuovere un percorso di conoscenza e sviluppo personale.


  1. Prendo una pillola e passa tutto
La nostra vita è sempre “in quinta”, i ritmi delle nostre giornate sono rapidi e lasciano poco spazio alla riflessione; spesso si tende a optare per una soluzione immediata e sbrigativa. In determinate situazioni ricorrere a uno psicofarmaco è fondamentale al fine di ripristinare equilibri psicofisici ma, nell’ottica di una presa in carico globale e rispondente alle esigenze bio-psico-sociali della persona, è frequentemente opportuna una riabilitazione psicologica. Di frequente, la possibilità di giungere a una comprensione psicologica profonda della problematica o della sofferenza rappresenta il modo migliore e più duraturo per risolverla.


  1. Non è possibile guarire con la parola
Come può una persona, anche se esperta del funzionamento umano, a farci stare meglio utilizzando solo la parola? Beh forse questa è un’osservazione corretta. Non è la parola a curare ma la relazione. Attraverso il colloquio clinico, che rappresenta lo strumento di elezione, si instaura una relazione empatica tra lo psicologo e il paziente. Si tratta di una relazione che è per certi versi simile ad altre relazioni interpersonali significative, ma anche unica e speciale. Il professionista offre alla persona che chiede aiuto uno spazio tutto personale, di comprensione delle sue emozioni, dei suoi pensieri e delle sue azioni, privo di giudizio e caratterizzato da accoglienza e riconoscimento della sofferenza. Grazie alla parola, il paziente ha la possibilità di ridefinire insieme al terapeuta una situazione problematica, acquistando una maggiore consapevolezza e conoscenza di se e del proprio funzionamento e di sperimentare una crescita e un cambiamento profondi.

Potrei continuare con questo elenco perché di falsi miti ce ne sono tantissimi ma questa trattazione mi sembra già abbastanza lunga, continueremo a parlare dei questa professione in uno dei prossimi articoli e restiamo a disposizione dei nostri lettori per fornire informazioni e rispondere a curiosità e domande.

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La fine di un amore

9/10/2017

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psicologo dipendenza affettiva
LA FINE DI UN AMORE

“Non siamo mai così privi di difese come nel momento in cui amiamo” (S. Freud).

È con questa frase di Freud che vorrei iniziare un breve articolo sul tema della fine di un amore.

Le relazioni sono essenziali per ognuno di noi e la nostra quotidianità è in gran parte sociale, dalla nascita e per tutta la nostra vita l’Altro occupa un posto significativo nel nostro percorso e nella nostra crescita.
Per questi e altri motivi la fine di una relazione amorosa può essere fonte di grande dolore.

Quello che vuole dirci Freud con quelle parole è che nel momento in cui amiamo siamo esposti anche, ma non solo, alla sofferenza. Le nostre barriere e difese che siamo abituati ad avere nei confronti di persone che conosciamo poco o di cui abbiamo una non completa fiducia vengono meno in una relazione con la persona di cui siamo innamorati.
Quando la relazione amorosa finisce siamo soliti, qualche volta mettendoci proprio una mano sul petto, fare affermazioni del tipo “ho il cuore in pezzi”, “mi ha dato una coltellata al cuore” e altre frasi dal significato analogo.

In realtà, la scienza ci dice che questa sofferenza non ha origine nel cuore ma nel nostro cervello.
A dimostrazione di ciò, è stato condotto uno studio da Ethan Kross nell’Università del Michigan su un gruppo di volontari.

Gli sperimentatori hanno sottoposto i soggetti sperimentali alla visione di fotografie dell’amante perduto in risonanza magnetica, al fine di rilevare le risposte del cervello durante la riattivazione del dolore amoroso. Questo test è stato ripetuto inducendo negli stessi volontari un dolore fisico mediante uno stimolo termico.

Cosa è stato osservato? In entrambe le situazioni sperimentali si sono attivate la corteccia secondaria somatosensoriale e l’insula dorsale posteriore.

Questo studio ci dice che la fine di una relazione amorosa, oltre a provocarci una sofferenza psicologica, ci fa lo stesso male di una scottatura ed è quindi fonte di un dolore anche fisico.

L’elaborazione di una perdita di questo tipo è molto importante poiché, pur non eliminando il dolore e la nostalgia, ci consente di comprendere e accogliere le nostre emozioni, di conoscere qualcosa in più su noi stessi e sul nostro modo di essere in relazione con l’Altro e ci protegge da un blocco emotivo, consentendoci di mantenere un equilibrio e un’apertura verso il mondo, fondamentali per tornare ad amare di nuovo.


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